IL TRATTATO DEL QUIRINALE

A cura di Luigi Olita

Sembra profilarsi all'orizzonte la firma del trattato tra Italia e Francia, nato sotto il governo di Paolo Gentiloni nel 2017. Stiamo parlando del trattato del Quirinale, che vedrà una cooperazione bilaterale rafforzata in campo militare, di cyber security, trasporti, cultura, transizione energetica e gestione dell'immigrazione tra Italia e Francia. Le basi vennero poste sotto la presidenza di Gentiloni e la breve pausa tra il 2018 ed il 2019 che vide in auge il primo governo Conte con la Lega ed il Movimento Cinque Stelle come forti oppositori delle mire egemoniche europee di Macron destarono preoccupazione nella conclusione del trattato. Il governo Conte II tranquillizzò le relazioni tra Italia e Francia, anche grazie alla completa istituzionalizzazione dell'ex leader dei Cinque Stelle Di Maio ed attuale capo della diplomazia italiana, il quale si mostrò, dopo un breve periodo di accondiscendenza verso i gilet gialli, come primo interlocutore dell'Eliseo.

Con il nuovo governo di Mario Draghi il trattato del Quirinale diventerà realtà. Infatti il 25 novembre Emmanuel Macron sarà a Roma per concretizzare l'accordo tra Roma e Parigi. Un accordo che va ben al di là della cooperazione bilaterale, poiché ad essere coinvolti non saranno soltanto i due attori principali ma anche le potenze dell'anglosfera e Washington. Non è un mistero che Macron punti a diventare il comandante indiscusso dell'esercito europeo paventato nelle sedi istituzionali di Bruxelles, soprattutto dopo i suoi forti dissapori con la NATO e con lo scacco giocato da Londra, Canberra e Washington sulla questione dei sottomarini nucleari e dell'AUKUS. Una più stretta cooperazione tra Roma e Parigi va a coalizzare due nazioni che in politica estera hanno avuto in questi anni delle enormi divergenze, dalla partita libica e mediterranea, alla produzione e vendita di armamenti. Una posizione, quella italiana, in questi scenari che Parigi non ha mai tollerato e che ha faticato a stare sul pezzo per raggiungere Roma.

I bastoni tra le ruote da parte di Parigi verso l'Italia non sono stati pochi, ma con un leader come Mario Draghi, dotato di forte influenza internazionale, il capo dell'Eliseo ha deciso di mantenere un profilo basso. Questo perché nonostante le ambizioni egemoniche europee e mediterranee, e le elezioni del 2022, Macron si trova davanti una personalità come quella di Draghi che incarna a pieno il potere politico e finanziario europeo, difficile da controllare, se non in base a compromessi. Il decisionismo draghiano è un problema per Parigi, che ha preferito concretizzare diplomaticamente l'accordo con Roma per poi concentrarsi per la riconferma (tutta in salita) all'Eliseo. Parliamo di due leader decisionisti, l'uno ascoltato in religioso silenzio ai tavoli europei come affermato dal presidente del Consiglio spagnolo Sanchez, l'altro con una buona dose di coraggio da mettere in discussione l'Alleanza Atlantica e porsi a capo di una desiderata macchina militare Europea. Ma Macron, seppur decisionista, sa bene che in Europa, anche grazie alla benedizione della Merkel, l'orologio si ferma quando arriva l'ex allievo di Federico Caffè.

IL TRATTATO DEL QUIRINALE

LA GUINEA TRA ORIENTE ED OCCIDENTE

A cura di Luigi Olita

Il golpe militare attuato in Guinea domenica 5 settembre ha sollevato una forte attenzione da parte dell'Europa e soprattutto da parte di Cina e Russia. Il generale Mamhady Doumbouya, al comando delle forze speciali, ha sciolto il Governo ed ha arrestato il Presidente della Guinea, Alpha Condè, il quale stava continuando il suo terzo mandato a capo del Paese africano, ed ha affermato che "la personalizzazione del potere è giunta al termine, con l'obiettivo di affidare la politica al popolo." Un colpo di stato messo a punto da un uomo esperto di strategia militare e soprattutto con un passato nella legione straniera francese. I principali organi ed attori internazionali hanno espresso preoccupazione per il golpe militare, ed hanno richiesto, ad iniziare dal segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, il rilascio del presidente Condè. Anche la ECOWAS, cioè la Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale, ha minacciato di imporre delle sanzioni se non fosse avvenuto l'immediato rilascio del Capo dello Stato. 

Il dipartimento di Stato americano ha condannato l'accaduto, mentre la maggior parte dei sospetti che aleggiano sul colpo di stato, fanno pensare che dietro quest'ultimo ci possa essere l'aiuto esterno da parte di attori internazionali. Infatti, se ci dovesse essere, dietro il golpe, la longa manus di un qualche attore, le accuse ricadrebbero probabilmente sulle due potenze più vicine alla Guinea: la Francia e la Russia. La prima è un attore ormai stabilizzato militarmente in quella zona, soprattutto in Mali e con mire geopolitiche ben precise, oltre che vicina al generale Doumbouya, il quale è stato forgiato dall'addestramento della legione straniera. La Francia, proprio per la sua vicinanza agli apparati militari di Guinea, potrebbe aver facilitato il golpe nel Paese per assicurarsi un militare alla guida dello Stato e per allontanare dalla sua zona di influenza altri soggetti indesiderati. In questo contesto va introdotto anche il ruolo di Mosca, la quale è presente in Guinea con la sua compagnia di contractor Wagner e potrebbe avere avuto un ruolo nel rovesciamento di Condè .

Una sfida per assicurarsi la fedeltà dell'uomo forte dell'esercito, monitorato soprattutto dal mercenari russi presenti nella zona, i quali hanno permesso alla Russia di inserirsi non solo come soccorritrice durante la pandemia per la fornitura di vaccini contro il Covid-19 ma anche per frenare le sacche di terroristi presenti nei dintorni. I rapporti tra la Guinea e la Russia sono anche molto rafforzati dagli accordi tra il Governo guineano e la Rusal, potentato russo dell'alluminio, il quale detiene la maggior parte dei diritti minerari in Guinea. A ciò, si aggiunge l'incontro avvenuto ultimamente tra l'ambasciatore russo in Guinea ed il generale Mamhady Doumbouya, con lo scopo di fare il punto della situazione, sempre più infiammata. La questione, dunque, viene contesa tra Parigi e Mosca, dove la prima cercherebbe di scalzare la seconda a causa della forte diplomazia messa in atto sia in campo minerario sia in campo vaccinale, mentre il Cremlino continuerebbe a proteggere i suoi interessi minerari e non con lo scopo di inserirsi in un contesto da sempre dominato dall'Eliseo. Una sfida che sta continuando e che è iniziata in molte parti del continente e sta destando preoccupazione a Parigi che da un po' di tempo a questa parte mira alla costruzione di un esercito europeo per "sostituire" la "cerebralmente morta" NATO, soprattutto dopo l'assenza di garanzie da parte di Washington dopo il fallimento del ritiro dall'Afghanistan. Un ruolo che potrebbe, per ipotesi, essere preso proprio dalla Francia, la quale si potrebbe porre come nuovo poliziotto a capo di una nuova Europa, forgiata secondo i diktat d'oltralpe, e di un nuovo mondo libero, non più fiducioso nelle azioni della Casa Bianca.

LA GUINEA TRA ORIENTE ED OCCIDENTE

IL BRACCIO DI FERRO DI LUKASHENKO

A cura di Luigi Olita

La tensione al confine tra Bielorussia e Polonia è salita alle stelle in queste settimane tanto da spingere le alte cariche europee all'idea di finanziare un muro per il blocco dell'immigrazione proveniente dal territorio bielorusso. Varsavia ha posto oltre alla polizia di frontiera, anche un manipolo di soldati per difendere i confini minacciati da Lukashenko, il quale, similmente al presidente Erdogan, può contare sull'arma dell'immigrazione per fare fronte alle minacce provenienti da Bruxelles. Quest'ultima si è detta favorevole ad un aumento delle sanzioni verso la Bielorussia, scatenando una reazione molto grave da parte del presidente Lukashenko che ha minacciato di tagliare i rifornimenti di gas all'UE attraverso il gasdotto Yamal Europe che attraversa Russia Bielorussia e Polonia per poi arrivare in Germania ed attraverso il quale passa il 20% di idrocarburi provenienti dalla Russia.

Il presidente russo Vladimir Putin, accusato da molti esponenti del mondo politico europeo di essere dietro la "congiura migratoria" messa in atto dal piccolo satellite bielorusso, ha intimato in questi giorni di ammorbidire i toni, anche telefonando alla cancelliera uscente Angela Merkel. Oltre alla diplomazia, per mostrare il suo sostegno all'alleato Lukashenko, l'aviazione russa ha più volte presenziato nelle ultime ore i cieli bielorussi, andando in questo modo ad allarmare non solo Varsavia, ma anche Kiev. A sostegno della Polonia, il rispettivo governo ha affermato nelle ultime ore che l'esercito britannico contribuirà a rafforzare la difesa dei confini tra Polonia e Bielorussia, sollevando in questo caso lo spauracchio della NATO ai confini della Bielorussia.

Già lo scorso anno, durante le elezioni che sancirono la riconferma di Alexander Lukashenko, i sospetti di azioni da parte dell'Alleanza Atlantica, soprattutto a sostegno della leader dell'opposizione Tikhanovskaya, vennero denunciati dal presidente bielorusso. Infatti quest'ultimo affermò che le proteste per le strade di Minsk e di altre città bielorusse erano state fomentate dall'intervento di intelligence straniere appartenenti alla NATO, citando a rapporto, secondo gli avvertimenti del KGB, la Polonia, gli Stati Baltici e la Gran Bretagna. Il chiaro accerchiamento da parte dell'UE e soprattutto di un possibile appoggio britannico, leggasi NATO, ai confini tra Polonia, Bielorussia ed Ucraina avrebbe si lo scopo di fermare la bomba migratoria che si disperderebbe in seno all'UE, ma anche l'obiettivo di minare ancora di più il potere del vecchio sovietico Lukashenko, il quale ha ormai de facto e probabilmente anche de jure, giurato fedeltà a Mosca con gli accordi di cooperazione economica e militare firmati ultimamente. 

Dunque un attacco asimmetrico diretto anche a Mosca, auspicato soprattutto da Polonia ed Ucraina, arci nemiche del Cremlino. La bomba migratoria ha avuto in questi caso un lato positivo, poiché le tensioni delle ultime settimane tra Bruxelles e Varsavia riguardo le leggi europee e nazionali polacche che avevano coinvolto la corte costituzionale polacca, sono state ammorbidite, o quasi accantonate proprio dalla minaccia bielorussa. Bruxelles si è schierata dalla parte di Varsavia per quanto riguarda il respingimento dei migranti, gli stessi utilizzati per fare la morale alle autorità italiane quando vennero messe in atto, seppur discutibili, mosse forti per fermare l'immigrazione clandestina proveniente dal Nord Africa ed attraversante il Mediterraneo. Una ipocrisia da parte di Bruxelles che adesso si serve della Polonia non solo per respingere una bomba migratoria pericolosa per gli equilibri degli Stati, ma soprattutto si serve dell'immigrazione per non alzare le ostilità con Varsavia.

IL BRACCIO DI FERRO DI LUKASHENKO

IL GRAN PASSO DELL'ELEFANTE

A cura di Luigi Olita

Le nuove regole nella terra dei papaveri, ormai in mano talebana, saranno dettate solo ed esclusivamente da questi ultimi. Il de facto Emirato Islamico dell'Afghanistan ha ultimamente chiesto a Washington di mantenere aperta la sua ambasciata a Kabul, così come hanno fatto le missioni diplomatiche cinese e iraniana, mai chiuse dal 15 agosto. Le grandi potenze, con USA, Cina e Russia in testa, e le medie come Iran, Pakistan ed India (concepita come una media grande potenza), stanno gettando le basi per rafforzare la loro influenza nella Tomba degli Imperi. Proprio Nuova Delhi, forte della sua alleanza sia con gli USA, sia con la Russia, non ha mai avuto molta fiducia nelle fazioni talebane. Da sempre, ritenendole, non a torto, violente ed estremiste e soprattutto controllate dallo storico nemico, cioè il Pakistan. L'India ha sempre mantenuto all'erta la sua intelligence ed il suo esercito al fine di mettere in sicurezza i suoi confini dalle minacce provenienti dai proxy pakistani. L'intelligence pakistana, l'Inter Service Intelligence, una delle più temute di tutta l'Asia, ha una forte esperienza sin dalla Guerra Fredda nell'addestramento dei mujaiddin afghani. Un pericolo che l'India, anch'essa preparata nel campo dell'intelligence, ma meno temuta e spietata rispetto all'ISI pakistana, non può permettersi di ignorare. Eppure l'Elefante indiano è un gigante intrappolato tra due fuochi, da sempre in collisione; gli USA e la Russia. Washington, in funzione anti cinese avrebbe a disposizione Nuova Delhi per arginare le mire di Pechino nella zona, andando a scongiurare anche da parte del Dragone un accaparramento delle terre rare, bersaglio di Washington. Stessa cosa dicasi per il ruolo nei confronti del Pakistan e dell'Iran, due potenze ostili agli USA e da sempre accusate, chi più chi meno, di essere finanziatrici e protettrici delle fazioni talebane più violente. L'India in questo contesto avrebbe campo libero per danneggiare le pretese di Pechino, Teheran ed Islamabad, ma allo stesso tempo, è restia ad un intervento in territorio afghano proprio per timore di repressioni talebane comandate dall'altera pars pakistana. Dopo la fuga da Kabul è difficile fidarsi degli USA e delle possibili strategie fatte a Washington, proprio per questo la palla al balzo potrebbe essere colta da Mosca. Infatti, più affidabile diplomaticamente rispetto a Washington, almeno dopo gli ultimi avvenimenti, la Russia avrebbe l'opportunità di contare sulle risorse indiane per tenere a bada il Pakistan e la Cina, nonostante l'alleanza militare stretta tra i due paesi, e contemporaneamente allontanarla dall'abbraccio americano. Un compito difficile, che spingerebbe Mosca a convincere l'India che il vero problema in Afghanistan, almeno per il momento, è rappresentato più dalla fazione afghana dell'Isis, la Isis-K, che  dal nuovo governo talebano. Quest'ultimo, inevitabilmente, dovrà iniziare ad instaurare rapporti diplomatici con le varie cancellerie europee, interessate alla ricchezza del sottosuolo, sia con il resto degli scacchieri mondiali. Le rassicurazioni della Russia riguardo il cambio di passo dei talebani, ormai non più quelli di vent'anni fa, ma più esperti militarmente e tecnologicamente, potrebbero spingere l'India ad entrare come grande potenza all'interno del secondo round del secondo Grande Gioco iniziato nel 2001, e porsi come interlocutore influente, ma soprattutto come possibile alleato della Russia. In questo contesto di divisione del territorio, o meglio, di spartizione della terra dei papaveri, sotto mentite spoglie, la Russia, attore silente ed astuto potrà giocare numerose carte per accreditarsi ancora una volta, ago della bilancia della diplomazia mondiale.

IL GRAN PASSO DELL'ELEFANTE

IL LIBANO NEL MIRINO DELLE PETROMONARCHIE

A cura di Luigi Olita

Il Libano dallo scorso agosto 2020, dopo l'esplosione al porto di Beirut, non riesce a prendere pace. Dopo la mancanza di viveri, energia elettrica ed i segnali di una imminente guerra civile, la Terra dei cedri sta rischiando l'isolamento internazionale. Infatti, dopo le ultime proteste in piazza da parte di militanti di Hezbollah, presi di mira da cecchini appartenenti alle milizie cristiane, adesso la tensione nella vecchia Parigi del Medioriente si sposta sul lato internazionale. Ultimo è stato il muro sollevato dall'Arabia Saudita, la quale indignata dalle dichiarazioni del ministro dell'informazione libanese Kordahi, del governo Mikati, risalenti allo scorso agosto ma uscite nell'ultima settimana sul canale Al Jazeera, hanno fatto scoppiare una forte tensione tra il Libano e la monarchia di Rihad. Quest'ultima è stata spiazzata dalle dichiarazioni rilasciate su i ribelli Houthi in Yemen, i quali a detta di Kordahi stanno combattendo il conflitto yemenita contro l'Arabia Saudita per legittima difesa.

L'Arabia Saudita dunque, etichettata come stato invasore del piccolo Yemen, ha lanciato accuse contro Beirut, intimando il suo corpo diplomatico a ritornare in patria. Stessa mossa è stata attuata dal Bahrein e dagli Emirati Arabi Uniti, i quali hanno intimato il loro corpo diplomatico ed i loro cittadini residenti in Libano di ritornare in patria. Inoltre i rispettivi ambasciatori libanesi impegnati diplomaticamente a Manama e Abu Dhabi sono stati invitati a lasciare le capitali per fare ritorno in Libano. Anche lo Yemen ha seguito a ruota in queste azioni punitive le monarchie del Golfo, essendo il governo yemenita sponsorizzato e sostenuto in particolar modo da Rihad. Ovviamente le tensioni internazionali che coinvolgono la Terra dei cedri hanno un comun denominatore che si può ritrovare nel Partito di Dio, Hezbollah. Quest'ultimo ha una forte influenza nella parte sud

Del Libano ed è osteggiato principalmente da Israele, Usa e dalle principali monarchie del Golfo di stampo sunnita. Hezbollah è sostenuto dall'Iran, consentendo a quest'ultimo di inserirsi nel Paese a discapito di Israele e dei suoi alleati. La forte influenza iraniana che sta crescendo ulteriormente nel Paese ha messo sotto allarme le petromonarchie ed i suoi alleati, le quali hanno trovato come catalizzatore per agire proprio le ultime dichiarazioni di Kordahi. 

In questo panorama, gli USA di Joe Biden, che avevano visitato il Libano ad inizio settembre con una delegazione del Senato americano per intimare il Paese a velocizzare la formazione di un nuovo esecutivo, si trovano in questo caso a seguire da dietro le quinte la guerra fredda tra le potenze sunnite contro l'Iran sciita ed il suo proxy Hezbollah. L'atteggiamento cauto di Washington sta alla base di un tentativo di miglioramento delle relazioni con l'Iran e per trovare nuovamente un accordo sul nucleare stracciato da Donald Trump durante la sua presidenza. Ovviamente questa presa di posizione è osteggiata dalla maggior parte dei falchi dell'amministrazione Biden soprattutto appartenenti al comparto intelligence e militare, oltre che dall'arcinemico di Teheran, cioè Tel Aviv. Se l'Arabia Saudita era stata una delle migliori garanzie per il Libano per attenuare le tensioni degli ultimi mesi con Hezbollah, ovviamente l'entrata a gamba tesa dell'Iran non solo nella piccola Terra dei cedri, ma soprattutto nel pantano afghano ha messo in allarme Rihad, facendole cambiare drasticamente il passo e facendo trapelare che la crescita delle tensioni potrebbe trasformare il Libano in un nuovo campo di battaglia tra potenze.

IL LIBANO NEL MIRINO DELLE PETROMONARCHIE

IL CALCIO ITALIANO K.O.

A cura di K. von Metternich

Il campionato di calcio di Serie A non è iniziato di certo sotto i migliori auspici per i telespettatori-tifosi. Questi, già penalizzati dai limiti di entrata negli stadi imposti dalla Pandemia si sono trovati, nel weekend, ad affrontare anche un altro scoglio. La vendita dei diritti televisivi della Serie A assegnati dalla Lega, per il triennio 2021/2024, alla piattaforma di streaming online DAZN aveva, già nei mesi scorsi, generato molte perplessità tra gli addetti ai lavori. Infatti, DAZN da quest’anno può trasmettere tutte le partite di ogni giornata di campionato, di cui 7 in esclusiva assoluta per una cifra vicina agli 840 Milioni di Euro l’anno. Purtroppo, già dopo la prima giornata i dubbi di molti si sono materializzati e sono diventati realtà. Ore 18.30 di Sabato 21 agosto a San Siro va di scena Inter-Genoa e la piattaforma DAZN inizia ad accusare grandi problemi di buffering e di connessione.

In poche parole i tifosi davanti alla tv ricevono il segnale a singhiozzo o addirittura non lo ricevono affatto. Risultato: tifosi imbestialiti e partite che da 90 minuti finiscono per durare 130 tra gli insulti e gli improperi. La colpa è tutta di DAZN? Assolutamente no. La colpa, in questo caso, risiede tutta nell’avidità e nell’incompetenza dei Presidenti di Serie A, che pur di ricavare qualche milione in più hanno venduto i diritti del calcio senza tener conto dell’adeguatezza delle reti e dei servizi che DAZN può offrire. Purtroppo in Italia va così: si fanno i ponti senza cemento armato per risparmiare e si vendono i diritti a chi offre di più, ma non può garantire il Know-how per trasmettere senza intoppi.

Oggi, la Lega di serie A si lamenta e chiede rassicurazioni alla piattaforma online, ma prima cosa ha fatto? Tanti manager strapagati per non capire, che se in Italia un Network non possiede canali su piattaforme digitali o satellitari, non può vincere gare per l’esclusiva dei diritti del campionato. Infatti, il problema è anche di fondo, risiede nell’atavica carenza strutturale delle dorsali digitali del nostro Paese. A frittata fatta, tutti inviperiti: tifosi, società, parlamentari e finanche DAZN. La commedia dell’assurdo è servita. Il calcio in Italia è religione laica. La Pandemia ha sì acuito la crisi economica di molte squadre e con essa è esponenzialmente salita la bramosia dei Presidenti, ma continuando di questo passo o il tifoso tornerà alla storica radiolina o si stuferà del tutto sgonfiando la bolla Pallone voluta dai club italiani. I Presidenti dovrebbero prendersi le proprie responsabilità tornando a dare una vision al Calcio nostrano. Una vision, che certo cozza con la vendita al miglior offerente purchè paghi di un prodotto seguito ed importante come il Calcio.

IL CALCIO ITALIANO K.O.

KIEV CHIAMA, WASHINGTON RISPONDE

A cura di Luigi Olita

La questione del ritiro della missione diplomatica russa presso la NATO ha da subito smosso le diplomazie dell'alleanza Atlantica e soprattutto quella di Washington. Infatti, il segretario alla difesa americano, il Generale Lloyd Austin, si è recato subito dopo l'annuncio del ministro degli affari esteri russo, Sergej Lavrov, in Ucraina. Il capo del Pentagono ha avuto modo di incontrare il Presidente Ucraino Volodymir Zelensky per discutere riguardo la sicurezza nel Mar Nero, affermando inoltre che l'entrata all'interno dell'Alleanza Atlantica dell'Ucraina e della Georgia, che è stata visitata sempre in questi giorni dal Generale americano, è una questione fondamentale per gli USA. L'endorsement di Austin per l'ingresso di Ucraina e Georgia nella NATO arriva dopo la decisione russa, superando soprattutto la riluttanza inizialmente mostrata da Joe Biden su questa questione. 

Infatti il Presidente americano si mostrò cauto riguardo le richieste di Kiev di entrare a fare parte dell'Alleanza Atlantica proprio per la corruzione dilagante all'interno della politica ucraina. Austin, con i suoi incontri diplomatici e l'accettazione delle richieste ucraine ha cercato di tamponare lo scacco messo in atto da Mosca contro la macchina da guerra militare occidentale. Inoltre, il segretario alla difesa ha rimarcato la ferrea volontà da parte di Washington di difendere la sovranità sia di Kiev che della Georgia, cioè due Paesi in prima linea come possibili vittime da parte dell'aggressione russa. Kiev, dopo l’endorsement della Casa Bianca, ha iniziato, per l'ennesima volta, a scaldare i motori per quanto riguarda la mobilitazione dell'esercito. Infatti, secondo fonti accreditate, il governo di Kiev avrebbe messo a punto una strategia con i vertici della difesa, per ricominciare nuovamente attacchi militari nel Donbass. La presa di posizione ucraina, è dettata anche dal fatto di aver ricevuto armi e munizioni da parte degli alleati americani nei giorni scorsi. 

La situazione nel Donbass, dunque, non si appresta a terminare, soprattutto per l'affronto diplomatico mostrato da Mosca verso Washington. Un affronto mal sopportato dalla presidenza americana che sta perdendo terreno sia con la Cina che con la Russia, che, però si è da sempre dimostrata meno impulsiva rispetto al Dragone cinese nel reagire alle prese di posizione americane. Per punire ancora di più Mosca per il suo affronto, l'UE ha conferito proprio in questi giorni il premio Sakharov allo storico oppositore di Putin, Alexey Navalny. Un premio per la libertà di pensiero, utilizzato come strumento politico punitivo contro Mosca e conferito ad una pedina dimostratasi più volte accondiscendente con il razzismo, la xenofobia, l'estremismo di destra ed il neonazismo, temi che dovrebbero invece essere combattuti strenuamente dall'Unione Europea. In questo caso l'Europa dovrebbe fare attenzione al conferimento di tali premi che andrebbero a lodare la libertà di pensiero, che pare essere sempre a senso unico se si tratta di attaccare coloro che vengono definiti come nemici geopolitici, utilizzando come "burattini" individui che fanno propri temi che con la libertà di pensiero e con la libertà dell'individuo non hanno invece nulla a che fare.

KIEV CHIAMA, WASHINGTON RISPONDE

BANDIERE TEDESCHE NEL PACIFICO

A cura di Luigi Olita

L'invio da parte di Berlino di una nave da guerra nelle acque territoriali cinesi è una delle ultime azioni prima della fine dell'era di Angela Merkel. La presenza di una fregata tedesca, dopo che sia Bruxelles che Berlino avevano intavolato dei dialoghi distensivi con Pechino, non fa altro che minare le fondamenta degli interessi tedeschi. Infatti, dopo che Washington aveva annunciato di rinunciare alla maggior parte delle sanzioni contro il North stream 2, opera diplomatica di Merkel e Putin ed inizialmente osteggiata in modo determinante dall'amministrazione Trump, Berlino ha preferito attenersi alle direttive di Joe Biden ed ha mandato rinforzi nel Mar Cinese Meridionale.

La nave in questione è la fregata Bayern, partita da Wilhelmshaven e diretta verso il Mar Cinese Meridionale da sempre tenuto d'occhio da Washington. Una strategia da parte americana che punta ad allontanare uno dei maggiori partner nello scacchiere Europeo dal Dragone cinese. Infatti, Germania e Cina, hanno da qualche tempo rafforzato i loro rapporti commerciali, coinvolgendo anche la stessa Bruxelles, e dunque irritando Washington. Rapporti commerciali ed economici che hanno consentito di incrementare gli accordi sin dal dicembre del 2020, siglando un accordo globale sugli investimenti. Ovviamente le pretese di Washington dopo l'avvicinamento delle due diplomazie si sono fatte sempre più insistenti, proprio per una prima sconfitta sul North stream 2, uscito illeso senza sanzioni da parte americana e dunque concedendo una vittoria commerciale anche a Mosca.

Con il Dragone il discorso è diverso, poiché la diplomazia sanitaria inaugurata con l'inizio della pandemia, e una presenza sempre più determinante in Europa, hanno fatto drizzare le orecchie alla Casa Bianca. La via della Seta si appresta a continuare e a rafforzarsi dopo il frettoloso ritiro dall'Afghanistan, inglobando dunque anche la Tomba degli Imperi all'interno delle spire del Dragone. L'Europa, di cui Berlino è il motore politico ed economico trainante, non potrebbe permettersi di cadere oltre la muraglia, nonostante le concessioni americane sulla questione russa. Proprio per questo la diplomazia di Berlino dovrà fare i conti con la marina cinese, quando appunto la fregata arriverà al largo delle Isole Spratly, avamposto militare cinese. Una mossa cara a Washington, poiché farà scaturire provocazioni che serviranno per fare infiammare gli animi delle due diplomazie, cinese e tedesca, ma allo stesso tempo causando a Berlino una forte perdita dal punto di vista della sua influenza geoeconomica. Ciò minerebbe la potenza economica di Berlino, ormai non più una potenza militare dal post Seconda Guerra mondiale, ed introdurrebbe comunque quest'ultimo fattore all'interno di questo contesto. 

La diplomazia dell'era Merkel, in ogni caso, ha dimostrato da sempre che nonostante l'Alleanza Atlantica, ci si possa muovere attraverso vari canali per portare avanti la Realpolitik tanto cara al cancelliere di ferro Bismarck. Un cambio di passo in questo frangente farebbe maturare l'idea che il successore della Cancelliera Merkel non solo sarà un forte oppositore della Cina, ma potrebbe influenzare la diplomazia europea verso una linea ancora più atlantista e anti pechinese. In questo contesto sarebbe opportuno guardare anche alle future elezioni in Francia, dove un Macron leggermente indebolito, in caso di rielezione, continuerebbe comunque su una linea distensiva, ma non troppo, dunque da cane sciolto della diplomazia, verso Pechino. Uno dei lasciti della Cancelliera, per il momento, sarà quello di conservare il North stream 2, protetto dalle polemiche e dalle sanzioni di Washington.

 
BANDIERE TEDESCHE NEL PACIFICO

IL BRACCIO DI FERRO DELLA POLONIA

A cura di Luigi Olita

La questione che in queste settimane sta dividendo l'UE con Varsavia è agli occhi di tutti come un chiaro esempio di genesi di Polexit. La Polonia è, infatti, insieme alla alleata Ungheria, la vera spina nel fianco dell'Unione Europea. Le ultime diatribe che Bruxelles è stata costretta a combattere con Budapest risalgono alla fine del 2020 con la legge contro la propaganda LGBT nelle scuole attuata dal governo magiaro, e soprattutto con i veti imposti dagli ambasciatori di Polonia ed Ungheria a Bruxelles sui fondi europei. In queste settimane è arrivato, nuovamente, il turno della Polonia contro Bruxelles, proprio perché la Corte Costituzionale polacca ha affermato che alcuni articoli dei trattati europei sono incompatibili con la Costituzione del Paese. 

Il governo di Mateusz Morawiecki ha dunque accusato l'Unione Europea di sforare oltre le sue competenze ed i suoi poteri, destando scalpore all'interno dello scacchiere europeo riguardo la possibilità da parte della Polonia di andare incontro ad una Polexit. Già si temeva qualche mese fa, quando appunto il partito Fidesz di Viktor Orban era stato espulso definitivamente dal PPE, una possibile uscita dell'Ungheria dall'UE, cosa poi non avvenuta anche per meri calcoli politici da parte del leader magiaro. Non è un mistero, in ogni caso, che l'Unione Europea vada, la maggior delle volte, oltre le sue prerogative e si inserisca in maniera arrogante negli affari interni dei Paesi membri. Il governo Morawiecki ha puntato i piedi facendo prevalere le leggi interne rispetto alle leggi europee soprattutto dopo il verdetto della Corte Costituzionale del Paese. Il capo del governo polacco ha parlato alla sessione plenaria del 19 ottobre a Strasburgo, esponendo la difesa del governo di Varsavia nel rispettare la sovranità nazionale

Ovviamente, le preoccupazioni, oltre alla forte irritazione, da parte di Bruxelles per la possibilità di un'uscita da parte della Polonia dall'UE sono emerse dopo questo ultimo schiaffo. Anche se il terrore della Polexit per i più europeisti, ma desiderata dai più euroscettici, andrebbe concepita più come una minaccia che come una vera e propria decisione paventata. Il perché di questo braccio di ferro andrebbe ricercato nella capacità da parte di Varsavia di aumentare il suo potere contrattuale in sede europea, oltre al fatto di non cedere a possibili pressioni, già arrivate verso Budapest, patria del "politicamente scorretto", da parte di Washington. Quest'ultima è da sempre alleato di Varsavia tanto da intitolare al Presidente Donald Trump una base militare in territorio nazionale, la Fort Trump. 

In questo contesto andrebbe analizzato anche il ruolo del partito di governo a Varsavia, il Pis (Diritto e Giustizia), il quale è da sempre stato euroscettico, ma mai fino all'estremo, rispetto ad altri movimenti presenti in Polonia. Dunque questa presa di posizione, pur intimorendo l'Unione Europea, avrebbe un chiaro intento di mostrare i muscoli insieme all'alleato magiaro per ottenere sempre più potere contrattuale in sede europea. La Polexit renderebbe comunque la Polonia ancora più isolata di quanto non lo sia adesso, soprattutto con una Bielorussia in forte attrito con Varsavia e con Mosca da sempre osteggiata. L'UE e Washington sono due vere e proprie garanzie per Varsavia, ma l'ultima parola sarà da ascoltare alla sessione plenaria di Strasburgo.

IL BRACCIO DI FERRO DELLA POLONIA

AFGHANISTAN: INTERVISTA AL GENERALE VINCENZO LAURO

A cura di Luigi Olita

Una notizia che mai avremmo voluto apprendere, ed immagini strazianti che mai avremmo voluto vedere, ma che in ogni caso sarebbero state inevitabili. La presa di Kabul da parte dei Taliban è diventata realtà nella giornata di Ferragosto, dopo aver marciato senza fermarsi ed aver preso il controllo delle principali città quali Kandahar, Mazar-i-sharif ed Herat. Il governo afghano, sostenuto dall'Occidente, ha rassegnato le dimissioni. Il Presidente Ashraf Ghani è fuggito in Tagikistan, anche se secondo alcune fonti si sarebbe recato in Uzbekistan. Ovviamente l'arrivo dei Taliban a Kabul ha fatto piombare nel terrore la popolazione, fiduciosa negli eserciti occidentali e soprattutto nel Presidente Biden. Ciò non è avvenuto e la folle corsa verso gli aerei militari giunti per trasportare in salvo il personale diplomatico americano, si è trasformata in una vera e propria corsa verso la morte. 

Il nuovo ordine regionale che si appresta a proporsi al resto dello scacchiere asiatico e mondiale, vedrà i Taliban al potere del rinato Emirato islamico dell'Afghanistan. Ancora non si sa chi sarà il nuovo Presidente in pectore, anche se le numerose indiscrezioni farebbero ricadere il ruolo sul Mullah Baradar, uomo propenso al dialogo con le grandi potenze. Quindi, un cambio dello scacchiere geopolitico, che siamo andati ad analizzare con Vincenzo Lauro, Generale in riserva, ufficiale dei bersaglieri, già portavoce dell'Esercito italiano di stanza ad Herat. Il Generale Lauro oltre ad essere stato portavoce del contingente italiano ad Herat, vanta un vasto bagaglio di esperienza internazionale, essendo stato in Macedonia, Kosovo ed anche portavoce delle forze terresti della missione Antica Babilonia in Iraq nel 2003. 

VIG:Generale Lauro, come reputa la crescita dei talebani in questi anni e soprattutto i cambiamenti avvenuti in Afghanistan? Da semplici pastori abitanti delle montagne a macchine da guerra inarrestabili? 

L: La mia generazione di soldato comandante è cresciuta nei Balcani, ed ha avuto la piena maturazione in Afghanistan con incarichi anche di staff all'interno dei comandi internazionali. Durante i primi anni, i talebani erano armati con armi sovietiche e poca tecnologia, dimostrando la loro superiorità con la conoscenza del territorio. Con il passare degli anni, hanno acquisito la migliore filiera delle armi made in USA e molta della loro tecnologia. 

AFGHANISTAN: INTERVISTA AL GENERALE VINCENZO LAURO

IL MALI CONTESO

A cura di Luigi Olita

La conquista dell'Africa da parte della Russia non si ferma. Infatti l'ombra della compagnia Wagner, società militare di mercenari legata al Cremlino, tende ad allungarsi anche nel Mali. Ovviamente la presenza della compagnia Wagner in quel di Bamako ha irritato l'Eliseo, il quale è presente nella zona per portare a termine operazioni anti terrorismo sia con la missione Barkhane, sia con la task force Takuba comprendente anche l'Italia. Una vera e propria vittoria da parte di Mosca, che non solo tramite la sua diplomazia sanitaria messa in campo durante il 2020 con l'inizio della pandemia, ma anche con strumenti militari, si sta sempre di più allargando nel continente africano. Il ministro degli affari esteri russo, Sergej Lavrov, ha affermato che il governo del Mali si è espressamente rivolto alla compagnia militare privata Wagner per rafforzare il contrasto al terrorismo islamico, proprio dopo che la Francia aveva fatto trapelare le sue intenzioni di ridurre la sua presenza militare nella zona.

L'accordo tra il governo del Mali e la Wagner prevede l'impiego, per il momento, di più di novecento mercenari per l'attività di intelligence e militare contro le fazioni terroristiche nella zona come Al Qaeda e Stato Islamico. Una decisione non approvata, ovviamente, dalla Francia, che non ha nascosto la sua irritazione per la presenza russa nella zona, in un certo qual modo, per rimpiazzare i militari francesi. La risposta all'irritazione francese è arrivata proprio dal primo ministro maliano Maiga che non solo ha accusato le autorità francesi del ritiro del contingente militare messo in campo per sostenere le forze militari maliane, ma ha anche affermato l'importanza di trovare un sostituto nella guerra contro il terrorismo, cioè la Russia. Inoltre, secondo fonti giornalistiche, Mosca ha consegnato al Mali, nell'ultima settimana, quattro elicotteri ed un carico di armi, secondo un contratto stipulato tra la difesa russa ed il ministero della difesa del Mali.

Quindi dopo la Guinea anche il Mali diventa una zona contesa tra la Russia e la Francia. Quest'ultima sta dimostrando, almeno ultimamente, di non riuscire più a sostenere le campagne anti terrorismo avviate nelle zone calde dell'Africa e proprio Mosca sta incalzando l'Eliseo per sostituirlo in questi teatri. Da parte francese questo sarebbe un ulteriore input per dare vita al tanto discusso esercito europeo, non solo per rimpiazzare la NATO, ritenuta in stato di "morte cerebrale" dal presidente Macron, ma anche per rafforzarsi e riorganizzarsi in futuro in queste zone calde e per strappare alla Russia questi territori sempre più fuori dall'orbita francese. Le irritazioni francesi potrebbero essere superate, però, proprio da una ipotetica iniziativa russa e francese di cooperazione militare per il contrasto al terrorismo islamico in queste zone dell'Africa. Cosa non semplice quando due politiche estere così diverse vanno a cozzare tra di loro e monsieur le President mantiene l'ambizione di diventare la stella polare della politica estera europea.

IL MALI CONTESO

L'ENIGMA DEI LABORATORI

A cura di Luigi Olita

Non è un mistero che l'Occidente intero pensi, anche giustamente, che il Covid-19 sia uscito fuori dal laboratorio di Wuhan. Questa tesi, ormai sdoganata con l'amministrazione Biden ma sbandierata inizialmente da Donald Trump allo scoppio della pandemia, ormai è realtà. Infatti dopo aver quasi accantonato l'ipotesi del virus naturale, ormai questa viene superata da quella di un virus artificiale, La Cina sta cercando di difendersi lanciando accuse precise contro l'OMS e gli USA. Pechino, infatti, dopo aver concesso agli ispettori dell'OMS di visitare il suo territorio nazionale, ha puntato i piedi chiedendo alla massima organizzazione di iniziare ad indagare anche altrove. La richiesta del Dragone è chiara, riferendosi inizialmente agli USA ed ai numerosi laboratori militari sparsi nell'Europa dell'est, ma puntando il dito, soprattutto, verso Fort Detrick.

Quest'ultimo, situato nel Maryland, si occupa di questioni di biosicurezza, sviluppo biomedico e ricerca a scopo difensivo di agenti patogeni, coinvolgendo anche ebola e vaiolo. Le richieste da parte di Pechino di indagare riguardo le attività del laboratorio americano collegato al Pentagono si stanno susseguendo in queste settimane in modo estremamente ferreo. Infatti dal ministero degli esteri cinese le accuse riguardo il comportamento americano di non trasparenza riguardo le attività sulla ricerca biologica militare stanno mettendo sotto pressione la Casa Bianca. Il presidente Biden, in questo clima di accuse da parte di Pechino, ha affermato di aver ottenuto rapporti dell'intelligence americana riguardo le attività svolte all'interno del Wuhan Institute of virology. Una vittoria da parte di Joe Biden, il quale sta continuando il braccio di ferro con Pechino iniziato dal suo predecessore, e che mira in questo caso a fornire indicazioni alla comunità internazionale grazie alla serie di informazioni ricevute dall'intelligence.

L'accerchiamento da parte del governo cinese del fortino di biosicurezza di Fort Detrick è incentrato anche su incidenti accaduti in passato al suo interno. Con ciò Pechino si porrebbe in una posizione difensiva nel preservare il laboratorio di Wuhan. Con i lupi guerrieri cinesi sul piede di guerra e la Casa Bianca sempre più pressata dalle richieste di Pechino, la situazione tenderebbe a peggiorare, in questo caso però, a scapito di Pechino, proprio per gli ultimi dossier della Casa Bianca. Non bisogna in ogni caso dimenticare le accuse mosse dalla Cina riguardo la nascita e diffusione del virus, lanciate lo scorso anno proprio verso Washington. Nell'autunno del 2019, infatti, al ritorno dai giochi militari in Cina, molti atleti accusarono sintomi riconducibili proprio al Covid-19. In quell'occasione una delegazione americana era presente ai Giochi e ciò fece scattare Pechino puntando il dito verso l'intelligence americana nell'avere portato il patogeno in territorio cinese. 

Le accuse sono aumentate, secondo indagini cinesi, proprio per le ultime attività condotte nel 2019 all'interno del laboratorio americano, riguardanti proprio ricerche nel trattare nuovi virus. Ovviamente queste accuse non esentano i cinesi da responsabilità, proprio per la poca trasparenza dimostrata dal governo di Pechino all'inizio della pandemia. Nonostante lo scambio di accuse continuo tra le due potenze, Joe Biden al momento pare avere il coltello dalla parte del manico, intenzionato a procedere per stanare il misfatto, anche grazie ad un OMS ormai non tanto più solidale nei confronti di Pechino.

L'ENIGMA DEI LABORATORI

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